domenica 21 agosto 2022

ART ATTACK D’ALTRI TEMPI ovvero, l’arte di attaccare figurine ed adesivi

Mi vergogno a dirlo, ma grande e grosso come sono, mi piacciono ancora oggi adesivi e figurine.

Ci dev’essere qualcosa di magico nel contemplare l’immagine a colori, staccarla dal suo supporto, stare attento a non farla appiccicare alle dita, ed attaccarla più o meno diritta. Se però mi chiedete che cosa ci trovo di divertente in tutto questo, razionalmente non so rispondere. Forse è il piacere di un gesto che mi riporta agli anni verdi. Forse sono semplicemente matto.

Non devo essere l’unico, però. Per quanto riguarda l’album dei calciatori Panini, conosco altri che, come me, hanno fatto finta di tramandare questa passione ai figli, in realtà per continuare a coltivarla loro, dato che i ragazzini hanno ben altro da fare che incollar figurine, e ormai pensano solo a videogiochi e cellulari. Inoltre, come dimenticare che anni fa, a ristampare gli album Panini, fu addirittura L’Unità, serissimo quotidiano fondato da Antonio Gramsci? 


 

Vedo poi che il mercato continua a proporre iniziative rivolte ai “grandi”. Per esempio, nel 2020, la Gazzetta dello Sport ha lanciato in edicola una collana settimanale di ristampe di Kriminal, celebre fumetto degli anni Sessanta (in realtà già concluso quando io cominciai a leggere massicciamente fumetti da bambino), ed ha proposto, in allegato al primo numero, un album di figurine che riproduce tutte le copertine della serie originale (diverse da quelle realizzate per le ristampe). Ogni numero della collana contiene quattro figurine da appiccicare, e non v’è altro modo per completare l’album se non comprare tutti i numeri della serie. Ebbene, confesso che io mi sono sobbarcato l’impresa (ben 114 numeri, ormai prossimi alla conclusione) quasi esclusivamente per le figurine.

L’iniziativa deve aver avuto successo, perché prima ancora di concludere la collana di Kriminal, l’editore qualche settimana fa ne ha lanciata una gemella su Satanik (altro personaggio coevo, sempre ideato dalla stessa mano, quella di Max Bunker) ed ha replicato lo stesso schema: album allegato al primo numero e quattro figurine per ogni uscita settimanale.



Se si considera che il bacino di utenza di queste collane è certamente quello degli over 50, si può serenamente concludere che non sono l’unico bambinone in circolazione.

Le figurine hanno la loro naturale destinazione nell’album ad esse abbinato; più complicata è la gestione degli adesivi.

Ce ne sono sempre stati molti in circolazione. Quelli che uscivano in allegato ai fumetti, soprattutto nei primi numeri o in quelli celebrativi:

 


quelli distribuiti nei negozi all’acquisto di particolari articoli (ricordo, chissà perché, quelli della Wrangler dedicati ai nativi americani). 



Quelli che si acquistavano in cartoleria. Ma il punto era sempre lo stesso: dove appiccicarli?

Confesso che alcuni li ho letteralmente sciupati, ed a ripensarci oggi, mi prenderei a schiaffi da solo.

Ricordo un meraviglioso Sub Mariner bicolore, che faceva parte dei regali destinati ai soci del club dei Supereroi, che finì attaccato, per giunta storto, sotto un ripiano in legno di non so più quale mobile. Per fortuna, quando ho voglia di rivederlo, vado su ebay, dove c’è sempre qualche esemplare ancora in vendita.

 


Nella preadolescenza, forse in prima media, mi venne il ghiribizzo di fare le cose in maniera più scientifica. Presi un quaderno da scuola e cominciai ad incollare sia gli adesivi dei fumetti, sia altri che via via mi capitavano per le mani. Ma siccome sin da allora le mie velleità superavano di gran lunga le mie capacità, volli trasformare quel quaderno in una sorta di archivio di bellezza e inserii anche poesie scelte dalle antologia scolastica o suggerite dal fratello maggiore, e addirittura un mio disegnino ad acquerello, di cui però non ricordo nemmeno il soggetto. In ogni caso, il quaderno è andato perso.

Ho invece conservato diari / agende scolastiche di tutti gli anni di liceo, e lì trovo adesivi di tutti i tipi; sia alcuni commerciali del periodo, che testimoniano le mie idee dell’epoca (come questo Pelikan con marchio del WWF, probabilmente rimediato in cartoleria),

  

sia altri di carattere più bambinesco, probabilmente incollati via via che li ritrovavo tra i ricordi del passato; come questo Tex usato per una linea di jeans, che deve essere abbastanza raro, dato che non si vede in vendita nemmeno su ebay.

O questo adesivo della Shado, probabilmente apocrifo, ispirato ad una serie di telefilm intitolata UFO, che tanto successo ebbe tra i bambini ed i ragazzini degli anni Settanta. Purtroppo con gli anni si è molto rovinato, ma lo mostro così com’è, pagina dell’agenda compresa.


Naturalmente ognuno individua la superficie ideale per l’incollaggio degli stickers; basta un giro sul web  e si vedono auto come questa; ma confesso che la cosa non mi ha mai particolarmente allettato.


In omaggio alla teoria filosofica dell’eterno ritorno, credo elaborata dal signor Nietzsche, qualche tempo fa ho deciso di far rivivere l’idea del quaderno da adesivi. Ne ho comprato uno carino con superficie rigida, ed ho cominciato ad incollare tutto quello che trovavo. Adesivi pubblicitari (oggi decisamente più rari che in passato); adesivi a fumetti trovati qua e là; doppioni di figurine dei calciatori raccolte in passato con mio figlio ormai grande.

Ammetto che un grande aiuto me lo ha dato un’amica più giovane e moderna, che conosce nuove forme di approvvigionamento a me ignote. Lei compra adesivi da un sito che si chiama Shein, che per pochi spiccioli vende lotti anche di 50 sticker alla volta; un po’ me ne regala ed ecco che il mio “non-album” cresce.

 

Ammetto anche che la situazione mi crea dubbi di coscienza. Se mi capita tra le mani, magari su qualche bancarella, un vecchio fumetto con adesivi in allegato, che fare? Lasciarlì lì per garantire l’integrità collezionistica dell’albo? O staccarli per alimentare l’apposito quaderno e “godere” del gesto magico dell’incollaggio? Vorrei dire che la soluzione migliore sarebbe avere due copie di quel fumetto, una da conservare integra, l’altra da sfruttare per le figurine e poi da buttare; ma così facendo sembrerei definitivamente matto. Facciamo finta che non ho detto nulla.

Un’ ultima considerazione, che è anche un ricordo. Ho scritto prima che il problema del supporto su cui incollare, si pone per gli adesivi ma non per le figurine, destinate ad un album apposito. Beh, non è sempre vero.

In occasione dei Mondiali di calcio del 2018 fu dato ampio risalto alla notizia che un bambino brasiliano di otto anni, troppo povero per completare l’album delle figurine Panini, aveva disegnato di suo pugno 126 figurine delle 628, copiandole da quelle dei compagni di scuola ed usando un quaderno di scuola per imitare l’album. Una storia a lieto fine, sembra, poiché la Panini promise di regalare al piccolo Pedro Henrique Blaco Auruca un album completo.

 

Ebbene, anche io e mio fratello, nel campionato 1974-1975, non riuscimmo a procurarci l’album (non ricordo perché, non avevamo problemi economici così gravi in famiglia) ed incollammo le figurine che eravamo riusciti a racimolare, su un normale quaderno di scuola. Questo reperto è riaffiorato recentemente e ogni tanto me lo riguardo; nella sua sgangherata fantasia infantile (in massima parte merito di mio fratello), ha un che di geniale. 


Lasciamo perdere le figurine incollate due volte, come Luigi Pogliana del Napoli. Guardate invece la pagina degli scudetti di serie C. Nell’album sarebbero stati ognuno al suo posto, ben distanziati, ma sul quaderno sono finiti letteralmente l’uno addosso all’altro; e quella pagina tutta a sfondo argenteo (che in foto, purtroppo, non rende l’idea), se oggi può apparire un po’ barocca, all’epoca mi mandava letteralmente in sollucchero.

“Attaccami la spina”, cantava anni fa Jovanotti.

Io, ancora oggi, preferisco attaccare figurine e adesivi.


sabato 22 agosto 2020

QUANDO IL CUORE E' UNA QUESTIONE DI PANNA

 “Se quello che cerchi è un cuore da amare … un piccolo cuore per farti sognare…”


È poco nobile ricordare e canticchiare il jingle pubblicitario di un gelato, anziché una canzone scritta da qualche importante Artista?

Certo, i pubblicitari sfruttano i sentimenti, usano dolci parole d’amore per piazzare delle merci; secondo quelli a cui piacciono i paroloni grossi, si tratterebbe addirittura di “pornografia dei sentimenti”.

In realtà, per quanto il consumismo sia disdicevole nei suoi scopi, personalmente ho sempre ritenuto che un musicista, disegnatore o regista, se presta il suo talento ad una finalità commerciale come la vendita di un determinato prodotto, non smette per questo solo di essere un artista.

Perciò, ad allietare questo scorcio d’estate triste e virulenta, ben vengano i tanti disegnatori di fumetti che hanno dedicato la loro arte a pubblicizzare i GELATI, prodotto estivo per antonomasia.

Andando indietro coi ricordi, mi sembra di aver cominciato ad apprezzare il gelato con il Camillino. E dunque la prima immagine che vi propongo non può che essere quella disegnata da Benito Jacovitti (1923 – 1997) per lanciare questo prodotto della Eldorado.



I gelati al biscotto mi sono sempre piaciuti: peccato che non ho fatto in tempo ad assaggiare questo.



Il Fortunello della Alemagna doveva essere uno spettacolo, sia perché sembra (almeno dalle immagini pubblicitarie) più largo del mio Camillino, sia perché dedicato ad un classico personaggio dei fumetti: Happy Hooligan, nato addirittura nel 1900, e sbarcato in Italia non molto tempo dopo, sul Corriere dei Piccoli, nel 1908. O forse il merito è del cartellone di Mario Menzardi (1914 - 2007), talmente bello che la casa d’arte Cambi lo ha offerto in asta nel Giugno 2019.

Ma torniamo alla Eldorado.

Ecco un’altra pubblicità disegnata dal grande Jacovitti, per un gelato che non ricordo in effetti di aver assaggiato:



ed una molto più rara, genericamente dedicata alla produzione Eldorado, firmata “Descar”; dovrebbe trattarsi del fumettista Carlo Desiderati, sul quale non dispongo di alcuna notizia biografica.



Leggere giornalini a fumetti negli anni Settanta e Ottanta significava inevitabilmente imbattersi in pubblicità di gelati. Molti sono della Algida, la mia marca preferita, quella che ha inventato il mitico Cornetto.


Ma non posso dimenticare gli amati albi dei supereroi della Editoriale Corno, che spesso, sulla quarta di copertina, mostravano gelati da tempo scomparsi come il cono Atomic della Motta


o l’ Hippy della Tanara, un marchio dimenticato nelle nebbie della storia.


Finora ho parlato di gelati industriali, confezionati; quelli che certamente suscitavano più curiosità, coi nomi e le forme buffe, spesso creati ad arte per ingolosire i bambini.

In realtà, se si studia un po’ la storia del gelato come prodotto, si deve risalire a qualche secolo prima che si inventasse il moderno packaging.

Nel libro “Necessario indispensabile”, catalogo di una mostra sulla diffusione dei prodotti commerciali in Italia, allestita a Milano nel 1991, si legge che “All’era della dominazione araba in Sicilia si può senz’altro ipotizzare la nascita delle prime scuole di maestri gelatieri siciliani, ma il gelato vero e proprio, cioè il mantecato di crema, risale al XVI secolo, a opera del fiorentino Bernardo Buontalenti”.

Sarà vero? La voce “gelato” su Wikipedia, curiosamente, non cita né il Buontalenti (forse non aveva abbastanza talento) né gli arabi (ai quali viene attribuito solo il sorbetto), ma la Sicilia c’entra comunque; si parla di un cuoco di Aci Trezza, Francesco Procopio dei Coltelli (1651 – 1727), che avrebbe introdotto il gelato a Parigi fondando il café Procope, tutt’ora esistente.

Il catalogo e la enciclopedia online concordano però nel ricordare l’importanza della scuola del Cadore, in provincia di Belluno, i cui maestri diffusero il gelato in nord Europa anche grazie all’invenzione del cono (o cialda).

Il dilemma tra gelato industriale, con le sue confezioni multicolori, e gelato artigianale, con la sua aspettativa di maggiore genuinità, è sempre di attualità. Anche i miei figli, da bambini, si dividevano: il maschietto voleva il Cooky snack, la femminuccia la coppetta alla fragola. C’era a volte da diventar matti per soddisfarli contemporaneamente.

Visto che il precedente post sui cerotti l’ho concluso con un disegno di John Henry Hintermeister, che ha suscitato la curiosità di un lettore, ecco un’ opera in tema dello stesso autore: “Kiss for ice cream”.



Ecco un altro campione dell’epoca d’oro dell’illustrazione americana, Amos Sewell (1901 – 1983), con “Ice cream is not enough”, un’opera del 1953 che mostra la disperazione dei bambini, e delle mamme, quando il gelato non basta.



Per concludere: il cuore, nella vita, è importante.

Ma, almeno d’estate, forse lo è soprattutto quello di panna.

mercoledì 3 giugno 2020

C'ERA UNA VOLTA IL CEROTTO


La psicologia, a volte, è tutto.
Penso al vaccino che verrà, in questi giorni tristi, ed anche se spero che arrivi il più presto possibile, una parte del mio cervello non può fare a mano di rievocare la mia fobia per gli aghi, ed immaginare un liquido ostile che penetra a forza dentro il corpo…
Poi, qualche settimana fa, leggo che all’Università di Pittsburgh un team composto anche da un italiano (incredibilmente, mio compagno di classe all’inizio delle superiori) sta studiando un vaccino sotto forma di cerotto… ed ecco che cambia tutto!
Il cerotto è uno strumento familiare, amichevole, “protettivo”; così l’ho sempre percepito fin da bambino.
Mi piaceva annusarlo, mi piaceva l’odore, mi piaceva farmelo mettere dalla mamma anche per graffietti totalmente inconsistenti… cominciava a darmi fastidio solo quando, una volta bagnato, ad esempio dopo aver lavato le mani, perdeva aderenza con la pelle e cominciava a rammollirsi.
Ripassando in rassegna le pubblicità su Topolino, non è difficile trovare dei cerotti. Anzi, sul n. 945 ce n’era addirittura uno in allegato. Ce l’ho ancora, integro, non l’ho mai aperto: eccolo.

Sarei tentato dall’aprirlo, ma credo che sia “scaduto”; anche i prodotti non alimentari degradano, quando avevo i figli piccoli ho scoperto che scadono finanche i pannolini, nonostante siano fatti di plastiche varie. Mi conviene tenerlo lì, so che se lo aprissi rimarrei deluso.
E’ un po’ come quando uno riattiva la radio che aveva da ragazzo: spera che trasmetta la musica dell’epoca, che lo rimandi indietro nel tempo. Invece trasmette esattamente la stessa roba che puoi ascoltare col cellulare.
Torniamo ai cerotti. Per far divertire i bambini, cosa c’è di meglio dei colori? Ed infatti il retro della pagina pubblicitaria su cui era incollata la bustina del cerotto da aprire,  propone dei cerotti-arcobaleno… anzi, un concorso per indovinarne i colori.

Credo proprio che quella confezione di Arlecchino fu acquistata più e più volte in casa mia; ma l’unica foto del me stesso bambino, che ho trovato in versione incerottato, non mostra particolari colori… a parte che l’intera foto, con gli anni, è diventata violetta!

Comunque, i miei ricordi vanno indietro, a metà degli anni Settanta. Siccome poi, per qualche misterioso motivo, le cose antiche mi sono sempre piaciute, sono andato a vedere un po’ di pubblicità molto più vecchie, che vi propongo qui di seguito.


Per chiudere in bellezza, una illustrazione di John Henry Hintermeister (1897/1972) intitolata “Primo giorno di scuola”; si nota la disperazione del bambino alle prese con calcoli e compiti; ma, ancor più, si notano i cerotti che coprono le ferite al ginocchio.


Non potevamo vantarci di essere dei ragazzini forti, coraggiosi, avventurosi, senza riportare, come “incerto del mestiere”, qualche ferita. Il cerotto era anche il modo per mostrarle. 
Molti cerotti, molto onore. 



mercoledì 27 maggio 2020

TELEFONAMI TRA VENT'ANNI


Uscire di casa ed entrare in un cono d’ombra, un buco nero da cui si poteva essere inghiottiti, rendendosi irreperibili al mondo, a meno che non si avesse la ventura di incontrare una cabina telefonica per chiamare qualcuno. 



Questo era il nostro destino prima dell’invenzione dei cellulari. Come spiegarlo ai nostri figli?
Neonati che imparano a toccare lo schermo prima ancora di saper afferrare un oggetto.
Bambini che passano ore a chattare.
Adolescenti che terranno il cellulare in mano anche durante il primo rapporto sessuale.
No, noi eravamo di un’altra generazione. Più scomoda, forse. Ma a me, ad esempio, le cabine telefoniche piacevano un botto.
Cominciamo dallo strumento necessario per usarle: il gettone.


Quando ero bambino io, i gettoni valevano 50 lire e circolavano come se fossero denaro corrente, tutti i negozianti li accettavano esattamente come moneta, o li davano per resto. Ma quando avevo 10 o 11 anni, il valore fu portato di colpo a 100. Immaginate un bambino che ha un suo gruzzoletto in gettoni e se lo vede d’improvviso duplicare di valore. Nessun investimento in borsa o BOT, titoli o buoni, bond o JamesBond … nulla avrebbe potuto, può e potrà mai garantire un raddoppio secco del capitale dalla sera alla mattina. Ricordo bene quel momento, ma non avevo, ahimè, così tanti gettoni da potermi permettere qualche fumetto speciale. È probabile che qualche mio coetaneo, più addentro alle vicende finanziarie del paese, si fosse preparato per tempo.

C’era anche un altro modo per guadagnar soldini attraverso i gettoni telefonici; si trattava di entrare in ogni cabina e premere l’apposito pulsante attraverso il quale si otteneva la restituzione dei gettoni. C’era sempre qualcuno che dimenticava, a chiamata finita, di compiere l’operazione; così, se si aveva la faccia tosta di entrare nella cabina, sotto gli occhi dei passanti, solo per premere il pulsantino, il telefono poteva sputare fuori qualche prezioso gettone dimenticato.
Una volta ricordo che il telefono impazzì letteralmente; come una slot machine troppo generosa, lasciò cadere una cascata di gettoni sonanti; credo di aver tirato su quel giorno, se la memoria non mi inganna, almeno 600 lire.
Parlando di fumetti, è ovvio che non potevo guardare una cabina telefonica senza pensare ai tanti supereroi che ne avevano bisogno per cambiarsi d’abito.
Per Superman, che però da bambino leggevo ben poco, era una tradizione consolidata; non avendo sottomano gli albi della mia collezione, mi aiuto un po’ con google.

Il primo supereroe della storia usava le cabine telefoniche con tale velocità da entrarne come il mite giornalista Clark Kent, ed uscirne con costume e mantello; cosa facessero i suoi vestiti, non è dato saperlo.
La scena di Superman che si cambia nella cabina è così iconica, da aver dato luogo anche a varie parodie; eccone due.


La cabina telefonica consentiva di separarsi dal mondo; e gli autori di fumetti ne approfittavano per usarla come scenario fantastico; ecco un esempio tratto da Paperino.

Solo da adulto qualcuno mi spiegò che il Dottor Who, personaggio di poco successo da noi, viaggiava nello spaziotempo attraverso una cabina telefonica.

Crescendo ho molto usato le cabine per fare, dalla strada, telefonate romantiche alle ragazze che mi vergognavo di fare da casa; avevo il telefono in camera, ma mia mamma poteva entrare in qualsiasi momento con la scusa di posare un paio di mutande nel cassetto; e poi fermarsi ad ascoltare. E se si trattava di telefonate interurbane, al momento dell’arrivo della bolletta, poteva arrivare un interrogatorio di terzo grado. Decisamente meglio investire i gettoni (da ultimo, andavano bene anche normali monete).
Mi è mancata la possibilità di vivere una esperienza come quella mostrata in questa immagine, inviatami da una persona cara; ma, come si sa, non si può avere tutto nella vita.

Ora che le città sono, in un certo senso, una intera, immensa cabina telefonica, con gente che cammina e parla da sola, che futuro attende le vecchie strutture?
Alcune sono state trasformate in postazioni per book crossing, altre in fioriere. Altre affondano nel degrado.


Altre, chissà, sono pronte a partire nello Spazio.


sabato 12 ottobre 2019

SHAKESPEARE IN LOVE



No, non ho nulla in comune con Ezechiele Lupo, le cui storie apparivano continuamente, ai miei tempi, sul settimanale Topolino (ora sono del tutto scomparse, chissà perché; forse alla Disney pensano che, in tempi di veganesimo, sia diseducativo mostrare un lupo che cerca di mangiare i porcellini).
Soprattutto, non ho mai pensato seriamente di calcare il palcoscenico; nella prima recita di cui ho memoria, all’asilo, fui protagonista di un “incidente” di cui vi risparmio i mortificanti particolari.
Eppure, come non finirò mai di ripetere, i fumetti sono stati la mia scuola di vita; e dunque da essi ho imparato molte cose, e tra queste, a conoscere un certo WILLIAM SHAKESPEARE.




Avevo nove anni quando lessi “Ezechiele Lupo in teatro”; una storia dalla trama semplice ma istruttiva. Il nostro protagonista tenta un ennesimo inganno per catturare i tre porcellini: promette al figlio Lupetto di cambiare vita e di diventare attore. Allestisce allora uno spettacolo teatrale; affronta stoicamente uno stuolo di villani che, durante il monologo di Amleto, gli lanciano ogni sorta di ortaggi; e quando tutto il pubblico si è allontanato, annoiato a morte, e sono rimasti in sala solo i porcellini mezzi addormentati, li coglie indifesi e li cattura con una rete.
Geniale il finale; i lanciatori di ortaggi ritornano; spiegano che erano andati solo a rifornirsi di munizioni; pretendono il bis del monologo; e costringono Ezechiele a liberare i porcellini e ad affrontare una nuova, umiliante grandinata di pomodori.



Ora che siamo grandi, sappiamo che il monologo di Amleto non dovrebbe indurre noia, ma ispirare profonde-riflessioni-sul-senso-della-vita; ma gli autori di questa storia hanno trovato secondo me l’approccio giusto, ironizzando sulla “pesantezza” del testo ma riuscendo così a far imparare ai bambini che “Essere o non essere” non è uno slogan pubblicitario.

L’altra mia grande fonte di conoscenza, come ho scritto già altre volte, erano i fumetti dei super eroi; ed ecco qui Batman con “La morte è di scena”, una storia per lettori un po’ più grandini rispetto a quella di Ezechiele Lupo, e che ripresi più volte in varie fasce di età, facendomi all’inizio aiutare da mio fratello.



Qui gli autori immaginano che nella tentacolare Gotham City si svolga un festival scespiriano, con rappresentazioni all’aperto; l’eroe mascherato deve intervenire più volte a sventare attentati durante la recita di uno strano Macbeth in abiti moderni.




Gli autori inseriscono varie scene della celeberrima tragedia, incrociandole con le indagini svolte da Batman per identificare l’attentatore.




Alla fine si scoprirà che il colpevole è un vecchio attore impazzito, che rimpiange il teatro classico, e giudica una profanazione le ambientazioni moderne.

E c’è modo anche di inserire il non plus ultra delle citazioni… quello che avrei studiato molti anni più tardi, al liceo, rendendomi conto che quasi nessuno sapesse di cosa si trattasse, tranne me che leggevo i fumetti.





Naturalmente ci sono molti altri adattamenti di Shakespeare a fumetti, tra cui quello celeberrimo di Gianni De Luca che sta per essere ristampato dalla casa editrice NPE; ma io volevo parlare di ciò che ho letto da piccolo.

E concludere col famoso monologo che scoprii grazie all’uomo pipistrello:

Life’s but a walking shadow, a poor player 
That struts and frets his hour upon the stage 
And then is heard no more. It is a tale 
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.